STORIA DI UN NAUFRAGIO

Storie ed episodi che in qualche modo hanno fatto la storia della nautica
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Cleopatra
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STORIA DI UN NAUFRAGIO

La storia del relitto di Gela è unica in tutto il panorama dell’archeologia subacquea italiana e per alcuni versi anche in quello internazionale. È una storia unica sia in senso positivo che purtroppo in senso negativo.
Gela è una cittadina siciliana e racchiude tutto il litorale della provincia di Caltanissetta; fino ai primi anni ’60 era una rinomata località balneare con lunghissime spiagge che ricordano la riviera adriatica.
Poi la scelta di questo lungomare per la costruzione di uno dei più grandi impianti petrolchimici europei ha stravolto completamente la vita di questa città, trasformandola da una comunità agricola ad un polo industriale. Il forte inquinamento insieme ad un boom di edilizia abusiva hanno modificato non solo l’ambiente ma anche le locali tradizioni agricole e le predisposizione turistica di questa costa.
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Ma dietro a questa Gela maltrattata da malavita e sfruttamento, se non ci si sofferma al primo colpo d’occhio e non la si osserva con superficialità e snobbismo, è possibile osservarne un’altra dalle nobili e antiche origini che ancora sopravvivono tra case non intonacate, strade sterrate e quel forte odore della raffineria.
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Gela proprio quest’anno festeggia 2700 anni dalla sua fondazione, da quando cioè alcuni naviganti provenienti da Rodi e Creta scelsero questo luogo per fondare una nuova città, attratti da una fertile pianura, da un fiume e da una collinetta che si affacciava sul mare perfetta per ospitare e difendere i templi delle loro divinità che presto vi sarebbero stati costruiti.
Velocemente divenne una delle città più importanti della Sicilia, fondò Agrigento, conquistò Siracusa e il suo emporio marittimo, ossia un porto per scambi commerciali, divenne un caposaldo nella fitta rete di rotte mercantili tra la Grecia e le coste della Magna Grecia. L’emporio di Gela con le sue botteghe e magazzini affacciati sul mare e recentemente scoperto dagli archeologi sotto metri e metri di sabbia, costituisce un unicum per il suo stato di conservazione considerando che le pareti degli ambienti sono realizzati con mattoni crudi (impasto di argilla e paglia). Ma con i mattoni crudi i Geloi costruirono anche tutta la cinta muraria che ancora si conserva per lunghi tratti e visitabile sulla collina di Capo Soprano.
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Bene, un giorno di 2500 anni fa una nave dedita al commercio costiero tra le città della Magna Grecia venne sorpresa da una forte sciroccata, non riuscendo a raggiungere il porto di Gela, seppure ormai molto vicino, calarono le ancore in mare mettendo la prua al vento e probabilmente pregando sull’altare di bordo di salvare se stessi e la loro nave; ma le gallocce cedevano e in un ultimo tentativo di non far spiaggiare la nave legano le cime dell’ancora al dritto di prua, l’elemento più resistente a loro disposizione. Ma il mare e il vento non si calmano e anche il dritto di prua cede sotto la tensione delle cime, si strappa dal fasciame portandosi dietro anche parte della chiglia … la nave affonda velocemente e dolcemente si adagia su un basso fondale a soli 500 metri dalla riva. Nella sventura questo forse però permise ai marinari e all’armatore di mettersi in salvo mentre la sabbia del fondale accoglieva il relitto e rapidamente grazie alle onde e alla corrente lo ricopriva di uno morbido manto, lasciando in vista solo quel cumulo di pietre che era stato caricato come zavorra per stabilizzare la nave ….
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Mare d' aMare
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Cleopatra
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Re: STORIA DI UN NAUFRAGIO

Messaggio da Cleopatra »

Passano i secoli ed il mare tenta di custodire con cura il suo tesoro ma è una lotta continua: a volta le mareggiate scoprono il relitto e allora qualche frammento di storia si perde, altre volte le fiumare della costa depositano limo e allora di nuovo tutto torna nell’oblio, ma quel cumulo di pietre così alto e grande continua ad affiorare dalla sabbia e a rimanere l’unico testimone – quasi una lapide - di una antica tragedia. Arrivano tempi più recenti e la costa di Gela si affolla di barche che con le loro reti a strascico si incagliano in quell’inatteso cumulo di pietre che affiora – lui solo - in un’unica ed immensa distesa di sabbia e che ora pullula di vita: anemoni, spirografi, spugne lo hanno colonizzato e i suoi numerosi anfratti sono divenuti un’ottima tana per polpi e pesci, e dove ci sono pesci – si sa - arrivano anche i pescatori subacquei.
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Proprio due pescatori alla ricerca di qualche preda si imbattono nel nostro cumulo e spiando tra sasso e sasso qualcosa attrae la loro attenzione, immagino che sia siano subito dimenticati di saraghi e corvine quando scavando con le mani si sono trovati davanti a quattro arule dipinte (piccoli altari), poi un tripode di bronzo ed una coppa dipinta a figure nere insieme tanti altri frammenti di ceramica. Forse hanno trovato anche altri oggetti ma questi sono quelli che i due pescatori, spinti da un senso civico o forse anche dalla speranza di avere un congruo premio di rinvenimento, hanno consegnato alla locale Soprintendenza. Era il 1988.
Naturalmente questi oggetti suscitarono subito grande interesse, non solo per la loro bellezza – ma a Gela erano e sono abituati a trovare reperti archeologici unici al mondo – ma soprattutto perché risalenti all’inizio del V secolo a.C. (500- 480 a.C.), l’età d’oro di Gela e dei suoi commerci marittimi. Vennero immediatamente reperiti i fondi necessari per avviare le prime campagne di ricerca e così a partire dal 1989 iniziò lo scavo di quel misterioso ed inspiegabile cumulo di sassi. Così piano piano, anno dopo anno, vennero rimosse quasi 6 tonnellate di pietre, che avevano conservato immobilizzati sul fondale e protetti dal mare e dalle reti a strascico i resti di una nave di 2500 anni fa. Ma il dio Poseidone non è cambiato nel corso di tutti questi anni e lavorare su un fondale di 5 metri a poche centinaia di metri dalla costa ed aperto alle forti e repentine mareggiate di libeccio e scirocco che caratterizzano questa costa è difficile, la visibilità sott’acqua spesso non supera il metro, la sabbia ricopre lo scavo in continuazione e il moto ondoso ci fa ondeggiare avanti e indietro come uno ciuffo di posidonia. Ma lo sappiamo bene: ci vuole tenacia e soprattutto tanta pazienza perché scavare è sinonimo di distruggere: una volta che viene rimosso uno strato di sabbia o un oggetto non sarà più possibile ricreare il suo rapporto originale con ciò che lo circonda. Quindi tutto deve essere annotato, fotografato, disegnato anche e soprattutto quello che non si capisce perché forse domani – se non noi – qualcun altro potrebbe capirlo o confrontarlo con altri relitti.
Queste prime campagne di scavo – condotte da altri - permisero quindi di scavare buona parte del relitto conservatosi per una lunghezza di 17 metri ed una larghezza massima di quattro metri e mezzo, il carico che la nave trasportava venne recuperato quasi integralmente e risultò essere di scarsa entità numerica ma di grande pregio artistico. Ecco quindi che il nostro cumulo di pietre acquista un senso logico: la nave aveva scaricato quasi tutti i suoi prodotti in un altro porto e imbarcato una consistente zavorra per appesantire lo scafo e raggiungere l’emporio di Gela dove avrebbe scaricato gli ultimi pregiati vasi decorati da famosi pittori greci, che sicuramente l’aristocrazia locale avrebbe comprato e ben pagato per abbellire le loro tavole. Forse all’emporio di Gela avrebbe scaricato la zavorra e fatto un nuovo carico di prodotti locali da rivendere in altri porti della costa. E nel relitto è stato trovato uno stilo (il bastoncino per scrivere su tavolette cerate) che l’émporos (il proprietario del carico) usava probabilmente per tenere il conto delle merci vendute ed acquistate.
Finiti i soldi per lo studio ed acquisite molte informazioni ma non tutte, lo scavo venne chiuso e lo scafo, protetto e nascosto da centinaia di sacchi di sabbia e reti elettrosaldate, fu di nuovo affidato al mare ed alla sabbia del fondale. Era il 1994.
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Mare d' aMare
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Cleopatra
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Re: STORIA DI UN NAUFRAGIO

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Passano gli anni e nessuno sembra più interessarsi o preoccuparsi di quel relitto che apparentemente aveva già raccontato tutta la sua storia e consegnato agli archeologi il carico che racchiudeva, ma per fortuna era una calma solo apparente. Qualcuno (anzi qualcuna) della soprintendenza stava invece silenziosamente lavorando per racimolare altri soldi … ma in Italia la cultura vale troppo poco per investirci sopra denaro pubblico. Sono serviti molti anni per trovare i fondi necessari, finché una mattina suona il telefono e mi offrono l’incarico di riprendere i lavori sul relitto di Gela, lavori questa volta finalizzati al recupero integrale della nave. Ansia e felicità mi hanno riempito la testa, ma con una serenità serafica e tanta incoscienza ho accettato forse il lavoro più importante della mia vita. Era il 2003.
Con uno staff formato da archeologi, architetti disegnatori e tecnici iniziamo le operazioni di apertura del sito e già nascono i primi dilemmi: aprire tutto il relitto o aprirne solo una porzione? Eravamo coscienti che questa campagna di scavi era solo una prima tranche di tutto il lavoro e che sarebbe stata interrotta con l’arrivo delle prime mareggiate di fine estate, per cui si decise di aprire una porzione alla volta per terminare lo scavo ed effettuare nuovamente tutto il rilievo dello scafo, e questa volta doveva essere estremamente preciso perché dovevamo smontare tutta la nave ed essere pronti in un lontano futuro a rimontarla …
Così giorno dopo giorno il lavoro è andato avanti, litigando alternativamente con il libeccio e lo scirocco che tutti i pomeriggi ci obbligava a ricoprire con sacchetti di sabbia il legno scavato per evitare che eventuali mareggiate ci portassero via le porzioni di scafo meno solidali allo scafo. Se non era il mare combattevamo con la visibilità e spesso ci sembrava di immergersi più in un caffè che in acqua di mare. Sentivamo il peso della responsabilità perché il relitto di Gela è unico (almeno finora): con i suoi 20 metri di lunghezza è la più grande nave arcaica (500 a.C.) che si sia conservata nel Mediterraneo e il suo stato di conservazione avrebbe permesso di ampliare notevolmente le conoscenze sull’architettura navale delle imbarcazioni cucite.
Ma un po’ alla volta il lavoro procedeva e incominciarono – non senza ansia - i primi recuperi; se i madieri - grandi e solidi - potevano essere portati in superficie con una certa tranquillità i primi veri problemi sono nati per il recupero del paramezzale conservatosi nel tratto centrale per una lunghezza di circa sei metri. Così imponente e così fragile come potevamo portarlo integro fino alla superficie? E poi andava trasportato con la barca fino al porto e dal porto con un camion fino ai depositi della soprintendenza e qui una gru lo avrebbe di nuovo sollevato per depositarlo in una grande piscina piena di acqua dolce, in attesa di iniziare i trattamenti del restauro. Saremmo riusciti in tutto questo? Era il primo vero test che dovevamo affrontare.. e in gioco oltre al paramezzale c’era anche la nostra reputazione di archeologi e tecnici sub!
Il metodo di recupero è stato al centro delle nostre conversazioni per molti giorni, ognuno diceva la sua e tra discussioni, litigi, ipotesi e litri di birra abbiamo finalmente preso la decisione .. il paramezzale sarebbe stato messo in sospensione sotto un traliccio di tubi innocenti, in modo che le cinghie che lo sorreggevano potessero essere regolate su misura rispetto allo spessore del legno e nessuna parte avrebbe subito inattesi carichi di peso, soprattutto una volta fuori dall’acqua.
Le domande erano tante ma una soprattutto era decisiva e ci arrovellava il cervello: ma quanto pesa ‘sto paramezzale in acqua? e fuori dall’acqua? Nella settimana successiva è stata montata tutta l’impalcatura e preparata una cesta in metallo lunga quanto il paramezzale, poi è arrivato il gran giorno e fortunatamente il mare è rimasto calmo e la visibilità buona. Fino all’ultimo momento abbiamo stretto bulloni, serrato cinghie e imbottito con gommapiuma (che galleggia maledettamente) tutti quei punti dove il legno poteva andare a contatto con la struttura metallica; forse era più una scusa per posticipare il recupero che effettiva necessità ma alla fine dovevamo deciderci e allora attaccato il pallone idrostatico uno di noi ha cominciato a gonfiarlo gonfiarlo gonfiarlo .. ma non troppo … e come per incanto tutta la struttura dolcemente ha incominciato a muoversi e a staccarsi dal fondo rimanendo perfettamente orizzontale; così guidata da otto subacquei terrorizzati da qualsiasi piccolo sussulto è stata guidata verso la cesta dove dolcemente è stata ridepositata. Tutto il resto è stato un gioco issare la cesta con l’argano di bordo e assicurarla alla murata è stato facile, il trasporto a terra ha funzionato a dovere e così abbiamo salvato paramezzale e reputazione. Ma questo è stato solo il banco di prova per il recupero del resto della nave …
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Mare d' aMare
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Re: STORIA DI UN NAUFRAGIO

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Per quattro anni, appena il tempo lo consentiva, siamo tornati a lavorare sulla nave di Gela. Eravamo ormai esperti di recuperi, e così poco alla volta lo scavo e il disegno della nave procedevano di pari passo: ogni frammento di legno, piccolo o grande che fosse, veniva disegnato fotografato numerato (abbiamo superato i 2000 ..) e recuperato, contemporaneamente a terra tutto veniva catalogato, schedato e depositato in piscina. Eravamo sul finire del lavoro, dovevamo recuperare solo la chiglia e il settore di poppa e quindi eravamo quasi sereni, ma le sorprese (e le angosce) non erano finite! Una mattina il Grande Capo mi comunica che per motivi economici-politici e d’immagine voleva creare un grande evento mediatico e recuperare l’ultima porzione di scafo tutta intera … un giochino lungo 12 metri composto da chiglia, ruota di poppa, torello e contro torello e due madieri!!!!! Aiuto e ora?? Di nuovo a rischio la reputazione ma soprattutto a rischio la nave! L’impresa sembrava impossibile, coscienti che altri - in altre parti d’Italia - avevano già tentato il recupero di uno scafo con il risultato che la nave era finita in numerose cassette della frutta … e in tutti i modi abbiamo tentato di dissuadere il Grande Capo da questa operazione adducendo motivazioni archeologiche, di tutela e salvaguardia, di studio ed anche di mala figura in mondovisione ma è stato irremovibile, anzi – come ciliegina – ci ha serenamente comunicato che la data andata fissata con largo anticipo per fare i dovuti inviti ai politici locali ed alla stampa e che aveva tanta fiducia in noi!!! Qualunque fosse stato il mare, il tempo e la visibilità il 28 luglio (non lo dimenticherò mai) avremmo salpato la nave: avevamo ben due settimane per organizzarci.
Inutile dire che sono ricominciate le discussioni e le proposte di ognuno di noi su come fare e cosa non fare, ma nelle nostre più rosee previsioni la nave sarebbe affiorata integra per farsi vedere in tutto il suo splendore e poi disintegrarsi in mille pezzi appena uscita dall’acqua sotto il suo stesso peso ... e sotto le telecamere di mezzo mondo!
Ma era necessario decidere e in fretta, per cui con un po’ di autorità ho deciso di abbandonare tutti metodi di grande effetto (ma di scarsa garanzia) alla faccia dell’evento mediatico e di pensare soprattutto alla nave; la soluzione migliore era adottare lo stesso metodo usato per il paramezzale, lo avevamo sperimentato e aveva funzionato benissimo.
Ma oltre alla gabbia di tubi innocenti serviva una cesta lunga 12 metri dove depositare la nave, un telaio bilanciante a cui attaccare la cesta per evitare deformazioni in fase di sollevamento ecc ecc. e poi cime, grilli, palloni tutto calibrato per un peso stimato solo orientativamente.
Da quel giorno la barca appoggio è diventata una officina metalmeccanica, dove si tagliavano, piegavano e saldavano tubi innocenti, si segavano assi di supporto, si imbullonavano giunti, si arrotolava gommapiuma su qualsiasi sporgenza e dove si pregava che il mare restasse calmo e tranquillo, mentre noi eravamo sempre più agitati; per montare la culla che doveva sostenere la nave nel suo sollevamento avevamo dovuto scavare tutto intorno lasciando il fasciame privo di qualsiasi protezione e in balia del mare.
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Ma il mare è il mare, bello e capriccioso.
Il lavoro di montaggio della struttura metallica era a metà quando, a quattro giorni dal fatidico evento, è iniziata una delle mareggiate più forti che ci fossero state in tutta l’estate; non era neanche possibile andare con il gommone a vedere cosa stava succedendo sott’acqua dovevamo solo aspettare, aspettare e poi ancora aspettare scrutando il mare per cogliere i primi miglioramenti e pensando alla nostra nave “indifesa” che sicuramente il mare ci stava smontando … ansia angoscia e certezza del fallimento erano i soli stati d’animo che abbiamo provato per due giorni.
Finalmente il mare si calma e si riparte all’alba per sfruttare al massimo il poco tempo rimasto, qualcuno resta a terra per finire di preparare la cesta e tutto il resto. Primo turno prima immersione, arriva subito una brutta notizia: visibilità zero, l’acqua è completamente marrone.
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Ma a tentoni nel buio si prova a capire cosa sia successo alla nave, la struttura ha resistito bene, qualche imbottitura di gommapiuma è saltata e all’appello mancano alcuni frammenti del fasciame già in parte lesionati ma nel complesso la nave c’è ancora. Incoraggiati dalla buona sorte si ricomincia – seppure al buio – a montare il resto della culla in ferro e ha cercare nei dintorni le tavole di legno mancanti, perché alla fine l’unica cosa importante erano i legni della nave.
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Il giorno prima della fatidica data, per sfruttare una calma piatta (e non incappare nella Capitaneria di Porto) alle 5 di mattina abbiamo portato la cesta di metallo lunga 12 metri attaccata fuori bordo fino al cantiere subacqueo, con il motopeschereccio tutto sbandato da un lato e tutti noi dall’altro a far da contrappeso, ed è stata calata con grande attenzione vicino al nostro relitto. Tutto stava procedendo bene e la decisione di trasferire subito la nave dentro la cesta è stata immediata. Avevamo così tempo di fare le operazioni con calma, senza pubblico in superficie e la possibilità di modificare la nostra culla se sollevandola avesse dato segni di cedimento o se il relitto si fosse mosso al suo interno. Era giunto il momento più difficile e delicato, quello di gonfiare nuovamente il pallone di sollevamento ma per fortuna tutto ha funzionato come un orologio e il nostro relitto in breve si è trovato adagiato dentro la cesta. Ma la distribuzione dei pesi non era omogenea, perché la poppa della nave pesava molto di più del resto dello scafo e allora una serie di sacchetti di sabbia sono andati a bilanciare l’altra estremità della cesta (erano troppi? erano pochi? la cesta si sarebbe inclinata? non lo sapevamo). Eravamo pronti per l’ammoina del giorno dopo, seppure con ancora molte ansie: uscendo dall’acqua il fasciame avrebbe retto il suo stesso peso o sarebbe miseramente collassato nonostante tutti i nostri puntelli e rinforzi? Come ben magra consolazione pensavamo che se si fosse sbriciolato la cesta avrebbe raccolto quei miseri resti senza farli disperdere nel fondale.
Non potevamo saperlo, non era possibile fare prove generali, avevamo un'unica chance da giocarci sotto gli occhi di tutti. Credo che quella notte pochi di noi abbiano dormito, immaginando gli scenari più catastrofici.
Arriva il 28 luglio 2008, il mare non è calmo e c’è già troppo vento per essere prima mattina ma non si può rimandare per cui ci auguriamo che tutti gli ospiti arrivino in fretta e di levarci il pensiero.. il pontone con la gru che deve tirare su la cesta si avvia e noi lo seguiamo per facilitargli le operazioni di ormeggio sulla verticale della nostra nave. Tutto è pronto ma il mare incomincia ad alzarsi, non tanto, ma con una fastidiosa onda che sarebbe andata a infrangersi sul nostro relitto nel momento in cui fosse giunto in superficie e avrebbe creato ulteriori sollecitazioni al quel precario equilibrio che avevamo trovato per i nostri legni.
La preoccupazione è alle stelle, il politico di turno non arriva e quindi niente da fare dobbiamo ancora aspettare e il mare intanto continua ad aumentare. Alla fine arrivano tutti Polizia, Guardia Costiera Capitaneria di Porto e un infinito numero di barche e barconi con giornalisti, ospiti e curiosi. Siamo pronti, o la va o la spacca. Infinite le raccomandazioni al gruista di manovrare piano quando la cesta sarà nelle sue mani, un collegamento radio permette al nostro tecnico subacqueo di comunicare con il pontone per dirigere le operazioni di sollevamento e soprattutto per bloccarle al minimo imprevisto. Calano il bilanciere (anche lui di 12 metri) che viene agganciato alla cesta e VIA si parte per il recupero della nave greca arcaica di Gela. Sott’acqua ci vanno solo i tecnici e il nostro fotografo, non voglio subacquei inutili che si aggirano intorno alle operazioni di recupero e possono creare solo problemi. Dall’esterno quindi la vediamo salire, poi la gru si ferma, ci chiediamo cosa stia succedendo, poi dopo poco riparte il sollevamento. Il momento critico sarebbe stato il passaggio dall’acqua all’aria sia per le onde del mare ma anche e soprattutto per il maremoto che tutte quelle barche che ci giravano intorno stavano creando nel punto di emersione del relitto. Credo che tutta l’operazione non sia durata più di 20 minuti, ma sono sembrati una eternità e quando il bilanciere è riemerso sulla superficie, orizzontale e perfetto abbiamo tirato il primo sospiro di sollievo poi piano piano dolcemente è incominciata ad emergere la nostra struttura e a seguire tutto il relitto racchiuso nella sua culla. Era fatta, le sirene di tutte le imbarcazioni hanno salutato la nostra nave che alzandosi verso il cielo veniva guidata con mano sicura verso il pontone. Ho ricominciato a respirare, credo sia stata l’apnea più lunga della mia vita.
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Si è chiuso così il primo capitolo della storia della nave di Gela, ma subito si è aperto quello relativo al restauro, allo studio del legno ed alla musealizzazione della nave ma questa è un’altra storia.

(Qualche video del recupero è disponibile su youtube, cercando nave greca arcaica gela)
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